Sistema musica, january 2008

Renato Palumbo

«La musica di Verdi e il Romanticismo noir di Hugo»

Renato Palumbo torna al Regio di Torino con Rigoletto, dopo avervi diretto negli anni scorsi Sly e Il trovatore. Lo abbiamo raggiunto a Berlino durante le prove di Traviata.

Maestro Palumbo, Rigoletto è la prima opera della “trilogia popolare” con cui comincia la grande maturità di Verdi: quanto peso ha ancora il canto puro e semplice, se non addirittura il belcanto, e quanto conta invece una musica fondamentalmente orientata a creare il dramma?

«Rigoletto è intriso di belcanto come tutta la produzione verdiana. Ma il belcanto non è in sé estraneo al dramma. Nel caso di quest’opera esiste una dialettica particolare fra la forma e il dramma: il libretto non è costruito secondo la struttura classica a numeri chiusi; la forma musicale viene modellata di volta in volta sul dramma. L’unico momento davvero tradizionale è l’aria del duca «Parmi veder le lagrime», che è anche l’unica scena non tratta da Hugo, la più ambigua, tanto che può suonare terribilmente falsa. Proprio quest’ambiguità giustifica lo scarto rispetto al resto della partitura e il ritorno all’uso della forma classica recitativo, aria e cabaletta».

Come far convivere, quindi, forme più tradizionali con strutture articolate e drammaticamente duttili?

«Le due cose non devono convivere ma semplicemente vivere. Le scelte drammaturgiche di Verdi sono assolutamente perfette: la forma chiusa è adoperata con parsimonia per sottolineare i momenti più intimi, mentre quando si svincola dai modelli tradizionali il dramma si infiamma, creando una tensione impressionante».

Qual è il ruolo del suono orchestrale?

«L’orchestra deve sottolineare e preparare le situazioni: la scena di Sparafucile, con l’impasto dei fiati che ricorda la nebbia della bassa padana, la sferzata degli archi in «Cortigiani», l’omaggio a Monteverdi nella piccola introduzione del terzo atto, sono solo alcuni esempi di quanto l’orchestra sia fondamentale per la narrazione del dramma».

C’è un vero protagonista, centro del dramma, oppure ognuno dei tre personaggi principali ha una sua storia vissuta indipendentemente?

«Non c’è un personaggio predominante e ognuno ha una sua caratterizzazione musicale ben definita: Rigoletto con i suoi monologhi, Gilda con le sue melodie semplicissime e il duca, il più camaleontico, che alla festa canta una ballata brillante, nel postribolo una canzonaccia e da solo nel suo palazzo una vera aria, ben fatta, che lo fa sembrare un bravo ragazzo».

In che modo il Romanticismo noir di Hugo può aver funzionato come stimolo alla ricerca di nuovi percorsi stilistici?

«In Ernani Verdi aveva già espunto molti tratti grotteschi tipici del teatro di Hugo, ma solo dopo i soggiorni parigini, fra il 1847 e il 1849, si dedica maggiormente all’introspezione, valicando decisamente i confini fra i generi. In Rigoletto convivono il grottesco e il sublime, il brillante e il tragico, come nel teatro di Hugo, che aveva teorizzato il grottesco come categoria estetica. In realtà questo modo di rappresentare il mondo attraverso la commistione di diversi registri fa comunque parte della poetica del grand opéra, di quella singolare espressione del teatro popolare che fu il mélodrame, della stessa opéra comique. È il contatto diretto con queste fonti che rende così rivoluzionario Rigoletto».

L’opera è ambientata in spazi chiusi o notturni: sul Rigoletto non splende mai il sole. Dipende anche questo da Hugo? E che effetto ha sulla musica?

«L’atmosfera in Hugo è già molto cupa, ma Verdi va oltre: la narrazione viene ridotta all’osso, i personaggi sono quasi degli archetipi, assumono un fascino diverso, assoluto. Alla musica spetta quindi il compito di raccontare e di farci immaginare quello che nel libretto è sottinteso».

di Paolo Cairoli

Renato Palumbo

«La musica di Verdi e il Romanticismo noir di Hugo»

Renato Palumbo torna al Regio di Torino con Rigoletto, dopo avervi diretto negli anni scorsi Sly e Il trovatore. Lo abbiamo raggiunto a Berlino durante le prove di Traviata.

Maestro Palumbo, Rigoletto è la prima opera della “trilogia popolare” con cui comincia la grande maturità di Verdi: quanto peso ha ancora il canto puro e semplice, se non addirittura il belcanto, e quanto conta invece una musica fondamentalmente orientata a creare il dramma?

«Rigoletto è intriso di belcanto come tutta la produzione verdiana. Ma il belcanto non è in sé estraneo al dramma. Nel caso di quest’opera esiste una dialettica particolare fra la forma e il dramma: il libretto non è costruito secondo la struttura classica a numeri chiusi; la forma musicale viene modellata di volta in volta sul dramma. L’unico momento davvero tradizionale è l’aria del duca «Parmi veder le lagrime», che è anche l’unica scena non tratta da Hugo, la più ambigua, tanto che può suonare terribilmente falsa. Proprio quest’ambiguità giustifica lo scarto rispetto al resto della partitura e il ritorno all’uso della forma classica recitativo, aria e cabaletta».

Come far convivere, quindi, forme più tradizionali con strutture articolate e drammaticamente duttili?

«Le due cose non devono convivere ma semplicemente vivere. Le scelte drammaturgiche di Verdi sono assolutamente perfette: la forma chiusa è adoperata con parsimonia per sottolineare i momenti più intimi, mentre quando si svincola dai modelli tradizionali il dramma si infiamma, creando una tensione impressionante».

Qual è il ruolo del suono orchestrale?

«L’orchestra deve sottolineare e preparare le situazioni: la scena di Sparafucile, con l’impasto dei fiati che ricorda la nebbia della bassa padana, la sferzata degli archi in «Cortigiani», l’omaggio a Monteverdi nella piccola introduzione del terzo atto, sono solo alcuni esempi di quanto l’orchestra sia fondamentale per la narrazione del dramma».

C’è un vero protagonista, centro del dramma, oppure ognuno dei tre personaggi principali ha una sua storia vissuta indipendentemente?

«Non c’è un personaggio predominante e ognuno ha una sua caratterizzazione musicale ben definita: Rigoletto con i suoi monologhi, Gilda con le sue melodie semplicissime e il duca, il più camaleontico, che alla festa canta una ballata brillante, nel postribolo una canzonaccia e da solo nel suo palazzo una vera aria, ben fatta, che lo fa sembrare un bravo ragazzo».

In che modo il Romanticismo noir di Hugo può aver funzionato come stimolo alla ricerca di nuovi percorsi stilistici?

«In Ernani Verdi aveva già espunto molti tratti grotteschi tipici del teatro di Hugo, ma solo dopo i soggiorni parigini, fra il 1847 e il 1849, si dedica maggiormente all’introspezione, valicando decisamente i confini fra i generi. In Rigoletto convivono il grottesco e il sublime, il brillante e il tragico, come nel teatro di Hugo, che aveva teorizzato il grottesco come categoria estetica. In realtà questo modo di rappresentare il mondo attraverso la commistione di diversi registri fa comunque parte della poetica del grand opéra, di quella singolare espressione del teatro popolare che fu il mélodrame, della stessa opéra comique. È il contatto diretto con queste fonti che rende così rivoluzionario Rigoletto».

L’opera è ambientata in spazi chiusi o notturni: sul Rigoletto non splende mai il sole. Dipende anche questo da Hugo? E che effetto ha sulla musica?

«L’atmosfera in Hugo è già molto cupa, ma Verdi va oltre: la narrazione viene ridotta all’osso, i personaggi sono quasi degli archetipi, assumono un fascino diverso, assoluto. Alla musica spetta quindi il compito di raccontare e di farci immaginare quello che nel libretto è sottinteso».

di Paolo Cairoli

Renato Palumbo

«La musica di Verdi e il Romanticismo noir di Hugo»

Renato Palumbo torna al Regio di Torino con Rigoletto, dopo avervi diretto negli anni scorsi Sly e Il trovatore. Lo abbiamo raggiunto a Berlino durante le prove di Traviata.

Maestro Palumbo, Rigoletto è la prima opera della “trilogia popolare” con cui comincia la grande maturità di Verdi: quanto peso ha ancora il canto puro e semplice, se non addirittura il belcanto, e quanto conta invece una musica fondamentalmente orientata a creare il dramma?

«Rigoletto è intriso di belcanto come tutta la produzione verdiana. Ma il belcanto non è in sé estraneo al dramma. Nel caso di quest’opera esiste una dialettica particolare fra la forma e il dramma: il libretto non è costruito secondo la struttura classica a numeri chiusi; la forma musicale viene modellata di volta in volta sul dramma. L’unico momento davvero tradizionale è l’aria del duca «Parmi veder le lagrime», che è anche l’unica scena non tratta da Hugo, la più ambigua, tanto che può suonare terribilmente falsa. Proprio quest’ambiguità giustifica lo scarto rispetto al resto della partitura e il ritorno all’uso della forma classica recitativo, aria e cabaletta».

Come far convivere, quindi, forme più tradizionali con strutture articolate e drammaticamente duttili?

«Le due cose non devono convivere ma semplicemente vivere. Le scelte drammaturgiche di Verdi sono assolutamente perfette: la forma chiusa è adoperata con parsimonia per sottolineare i momenti più intimi, mentre quando si svincola dai modelli tradizionali il dramma si infiamma, creando una tensione impressionante».

Qual è il ruolo del suono orchestrale?

«L’orchestra deve sottolineare e preparare le situazioni: la scena di Sparafucile, con l’impasto dei fiati che ricorda la nebbia della bassa padana, la sferzata degli archi in «Cortigiani», l’omaggio a Monteverdi nella piccola introduzione del terzo atto, sono solo alcuni esempi di quanto l’orchestra sia fondamentale per la narrazione del dramma».

C’è un vero protagonista, centro del dramma, oppure ognuno dei tre personaggi principali ha una sua storia vissuta indipendentemente?

«Non c’è un personaggio predominante e ognuno ha una sua caratterizzazione musicale ben definita: Rigoletto con i suoi monologhi, Gilda con le sue melodie semplicissime e il duca, il più camaleontico, che alla festa canta una ballata brillante, nel postribolo una canzonaccia e da solo nel suo palazzo una vera aria, ben fatta, che lo fa sembrare un bravo ragazzo».

In che modo il Romanticismo noir di Hugo può aver funzionato come stimolo alla ricerca di nuovi percorsi stilistici?

«In Ernani Verdi aveva già espunto molti tratti grotteschi tipici del teatro di Hugo, ma solo dopo i soggiorni parigini, fra il 1847 e il 1849, si dedica maggiormente all’introspezione, valicando decisamente i confini fra i generi. In Rigoletto convivono il grottesco e il sublime, il brillante e il tragico, come nel teatro di Hugo, che aveva teorizzato il grottesco come categoria estetica. In realtà questo modo di rappresentare il mondo attraverso la commistione di diversi registri fa comunque parte della poetica del grand opéra, di quella singolare espressione del teatro popolare che fu il mélodrame, della stessa opéra comique. È il contatto diretto con queste fonti che rende così rivoluzionario Rigoletto».

L’opera è ambientata in spazi chiusi o notturni: sul Rigoletto non splende mai il sole. Dipende anche questo da Hugo? E che effetto ha sulla musica?

«L’atmosfera in Hugo è già molto cupa, ma Verdi va oltre: la narrazione viene ridotta all’osso, i personaggi sono quasi degli archetipi, assumono un fascino diverso, assoluto. Alla musica spetta quindi il compito di raccontare e di farci immaginare quello che nel libretto è sottinteso».

di Paolo Cairoli

Renato Palumbo

«La musica di Verdi e il Romanticismo noir di Hugo»

Renato Palumbo torna al Regio di Torino con Rigoletto, dopo avervi diretto negli anni scorsi Sly e Il trovatore. Lo abbiamo raggiunto a Berlino durante le prove di Traviata.

Maestro Palumbo, Rigoletto è la prima opera della “trilogia popolare” con cui comincia la grande maturità di Verdi: quanto peso ha ancora il canto puro e semplice, se non addirittura il belcanto, e quanto conta invece una musica fondamentalmente orientata a creare il dramma?

«Rigoletto è intriso di belcanto come tutta la produzione verdiana. Ma il belcanto non è in sé estraneo al dramma. Nel caso di quest’opera esiste una dialettica particolare fra la forma e il dramma: il libretto non è costruito secondo la struttura classica a numeri chiusi; la forma musicale viene modellata di volta in volta sul dramma. L’unico momento davvero tradizionale è l’aria del duca «Parmi veder le lagrime», che è anche l’unica scena non tratta da Hugo, la più ambigua, tanto che può suonare terribilmente falsa. Proprio quest’ambiguità giustifica lo scarto rispetto al resto della partitura e il ritorno all’uso della forma classica recitativo, aria e cabaletta».

Come far convivere, quindi, forme più tradizionali con strutture articolate e drammaticamente duttili?

«Le due cose non devono convivere ma semplicemente vivere. Le scelte drammaturgiche di Verdi sono assolutamente perfette: la forma chiusa è adoperata con parsimonia per sottolineare i momenti più intimi, mentre quando si svincola dai modelli tradizionali il dramma si infiamma, creando una tensione impressionante».

Qual è il ruolo del suono orchestrale?

«L’orchestra deve sottolineare e preparare le situazioni: la scena di Sparafucile, con l’impasto dei fiati che ricorda la nebbia della bassa padana, la sferzata degli archi in «Cortigiani», l’omaggio a Monteverdi nella piccola introduzione del terzo atto, sono solo alcuni esempi di quanto l’orchestra sia fondamentale per la narrazione del dramma».

C’è un vero protagonista, centro del dramma, oppure ognuno dei tre personaggi principali ha una sua storia vissuta indipendentemente?

«Non c’è un personaggio predominante e ognuno ha una sua caratterizzazione musicale ben definita: Rigoletto con i suoi monologhi, Gilda con le sue melodie semplicissime e il duca, il più camaleontico, che alla festa canta una ballata brillante, nel postribolo una canzonaccia e da solo nel suo palazzo una vera aria, ben fatta, che lo fa sembrare un bravo ragazzo».

In che modo il Romanticismo noir di Hugo può aver funzionato come stimolo alla ricerca di nuovi percorsi stilistici?

«In Ernani Verdi aveva già espunto molti tratti grotteschi tipici del teatro di Hugo, ma solo dopo i soggiorni parigini, fra il 1847 e il 1849, si dedica maggiormente all’introspezione, valicando decisamente i confini fra i generi. In Rigoletto convivono il grottesco e il sublime, il brillante e il tragico, come nel teatro di Hugo, che aveva teorizzato il grottesco come categoria estetica. In realtà questo modo di rappresentare il mondo attraverso la commistione di diversi registri fa comunque parte della poetica del grand opéra, di quella singolare espressione del teatro popolare che fu il mélodrame, della stessa opéra comique. È il contatto diretto con queste fonti che rende così rivoluzionario Rigoletto».

L’opera è ambientata in spazi chiusi o notturni: sul Rigoletto non splende mai il sole. Dipende anche questo da Hugo? E che effetto ha sulla musica?

«L’atmosfera in Hugo è già molto cupa, ma Verdi va oltre: la narrazione viene ridotta all’osso, i personaggi sono quasi degli archetipi, assumono un fascino diverso, assoluto. Alla musica spetta quindi il compito di raccontare e di farci immaginare quello che nel libretto è sottinteso».

di Paolo Cairoli

Renato Palumbo

«La musica di Verdi e il Romanticismo noir di Hugo»

Renato Palumbo torna al Regio di Torino con Rigoletto, dopo avervi diretto negli anni scorsi Sly e Il trovatore. Lo abbiamo raggiunto a Berlino durante le prove di Traviata.

Maestro Palumbo, Rigoletto è la prima opera della “trilogia popolare” con cui comincia la grande maturità di Verdi: quanto peso ha ancora il canto puro e semplice, se non addirittura il belcanto, e quanto conta invece una musica fondamentalmente orientata a creare il dramma?

«Rigoletto è intriso di belcanto come tutta la produzione verdiana. Ma il belcanto non è in sé estraneo al dramma. Nel caso di quest’opera esiste una dialettica particolare fra la forma e il dramma: il libretto non è costruito secondo la struttura classica a numeri chiusi; la forma musicale viene modellata di volta in volta sul dramma. L’unico momento davvero tradizionale è l’aria del duca «Parmi veder le lagrime», che è anche l’unica scena non tratta da Hugo, la più ambigua, tanto che può suonare terribilmente falsa. Proprio quest’ambiguità giustifica lo scarto rispetto al resto della partitura e il ritorno all’uso della forma classica recitativo, aria e cabaletta».

Come far convivere, quindi, forme più tradizionali con strutture articolate e drammaticamente duttili?

«Le due cose non devono convivere ma semplicemente vivere. Le scelte drammaturgiche di Verdi sono assolutamente perfette: la forma chiusa è adoperata con parsimonia per sottolineare i momenti più intimi, mentre quando si svincola dai modelli tradizionali il dramma si infiamma, creando una tensione impressionante».

Qual è il ruolo del suono orchestrale?

«L’orchestra deve sottolineare e preparare le situazioni: la scena di Sparafucile, con l’impasto dei fiati che ricorda la nebbia della bassa padana, la sferzata degli archi in «Cortigiani», l’omaggio a Monteverdi nella piccola introduzione del terzo atto, sono solo alcuni esempi di quanto l’orchestra sia fondamentale per la narrazione del dramma».

C’è un vero protagonista, centro del dramma, oppure ognuno dei tre personaggi principali ha una sua storia vissuta indipendentemente?

«Non c’è un personaggio predominante e ognuno ha una sua caratterizzazione musicale ben definita: Rigoletto con i suoi monologhi, Gilda con le sue melodie semplicissime e il duca, il più camaleontico, che alla festa canta una ballata brillante, nel postribolo una canzonaccia e da solo nel suo palazzo una vera aria, ben fatta, che lo fa sembrare un bravo ragazzo».

In che modo il Romanticismo noir di Hugo può aver funzionato come stimolo alla ricerca di nuovi percorsi stilistici?

«In Ernani Verdi aveva già espunto molti tratti grotteschi tipici del teatro di Hugo, ma solo dopo i soggiorni parigini, fra il 1847 e il 1849, si dedica maggiormente all’introspezione, valicando decisamente i confini fra i generi. In Rigoletto convivono il grottesco e il sublime, il brillante e il tragico, come nel teatro di Hugo, che aveva teorizzato il grottesco come categoria estetica. In realtà questo modo di rappresentare il mondo attraverso la commistione di diversi registri fa comunque parte della poetica del grand opéra, di quella singolare espressione del teatro popolare che fu il mélodrame, della stessa opéra comique. È il contatto diretto con queste fonti che rende così rivoluzionario Rigoletto».

L’opera è ambientata in spazi chiusi o notturni: sul Rigoletto non splende mai il sole. Dipende anche questo da Hugo? E che effetto ha sulla musica?

«L’atmosfera in Hugo è già molto cupa, ma Verdi va oltre: la narrazione viene ridotta all’osso, i personaggi sono quasi degli archetipi, assumono un fascino diverso, assoluto. Alla musica spetta quindi il compito di raccontare e di farci immaginare quello che nel libretto è sottinteso».

di Paolo Cairoli

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